Sulla cima di Monte Gallo, la montagna che separa le borgate marinare di Mondello e Sferracavallo, si trova un vecchio osservatorio (faro) del periodo borbonico che serviva, data la sua posizione sopraelevata, come avamposto militare per controllare eventuali attacchi via mare. Abbandonato per decenni, da circa 20 anni l’osservatorio è stato occupato da Nino, un muratore originario del quartiere Zen, ormai sessantenne, che ha deciso di farne la sua dimora. Dopo avere ristrutturato l’edificio, ricavandone gli ambienti che gli servivano per vivere, Isravele, così si fa chiamare da tempo, (NOTA: la parola ISRAVELE letta da destra a sinistra è ELEVARSI) ha iniziato a decorare la struttura con dei minuziosi mosaici che mischiano simboli cristiani, ebrei ed islamici, facendone una sorta di santuario, meta da tempo di pellegrini e di curiosi. Le tessere dei mosaici sono state ricavate da vetro e materiali di scarto che Isravele ha raccolto in questi anni ogni qualvolta lasciava il santuario per procurarsi beni di prima necessità. I soggetti rappresentati sono soprattutto ispirati all’apocalisse.

Per raggiungere il santuario si deve percorrere quella che l’Eremita ha chiamato la “Via Santa”, che lui stesso ha decorato con simboli per guidare i pellegrini al santuario. La strada sale su per la collina che i palermitani chiamano “della vergogna” perché disseminata di scheletri di edifici costruiti abusivamente negli anni ’70 ed ’80 del secolo scorso da imprese edilizie colluse con la mafia. Nonostante il percorso non sia agevole (circa due ore di salita)  la fatica vale lo spettacolo che si può godere arrivati al santuario, perché l’arte di Isravele è qualcosa di inaspettato, sia per il luogo in cui si trova che per l’artista che l’ha creata. Difatti per essere riuscito a creare un’opera così magnifica e fuori dagli schemi convenzionali, pur non avendo alcuna preparazione artistica, Isravele è considerato uno dei maggiori esponenti dell’Art Brut, o Outsider Art, siciliana.

Alcune delle mie foto sono state usate a corredo di un articolo pubblicato sulla rivista di arte contemporanea Artribune